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05 maggio 2024
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La riforma del lavoro.-

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LA RIFORMA DEL PRINCIPE DI SALINA

di Tito Boeri e Pietro Garibaldi 22.03.2012

Fonte:www.lavoce.info

La riforma del lavoro ha due pregi e molti difetti. I pregi consistono nell'aver messo fine al potere di veto delle parti sociali e nell'ampiezza dei temi affrontati. Sull'articolo 18, le nuove norme danno più potere ai giudici e aumentano l'incertezza. Non si allarga la platea dei potenziali beneficiari degli ammortizzatori sociali. Gli interventi sul dualismo possono peggiorare la condizione dei lavoratori e aggravano i costi delle imprese senza offrire una vera nuova modalità contrattuale in ingresso. Con il rischio che tutto questo riduca fortemente la domanda di lavoro.

La riforma del lavoro che si va delineando ha due pregi e molti difetti.
Il primo pregio è nel metodo. Sancisce, almeno sulla carta, la fine del diritto di veto delle parti sociali. Il lungo negoziato si concluderà senza firme, ma con un verbale in cui si annotano le differenti posizioni. E poi il governo procederà comunque. Staremo a vedere se il Parlamento permetterà all’esecutivo di intervenire senza il consenso delle parti sociali. Sembra, infatti, che si procederà non per decreto - come sin qui previsto nel caso di accordo - ma per legge delega e sappiamo quanto lungo, tortuoso e spesso inconcludente sia il loro processo di attuazione . Ad ogni modo, la novità è importante e positiva: le parti sociali non possono porre il veto su materie di portata così generale.
Il secondo pregio è nell’ampiezza della riforma. I problemi da affrontare erano quattro: 1) l’entrata nel mercato del lavoro 2) la cosiddetta “flessibilità in uscita” 3) il riordino degli ammortizzatori sociali e 4) il dualismo fra lavoratori precari e lavoratori assunti con i contratti di lavoro a tempo indeterminato. La riforma indubbiamente affronta tutti questi temi.
Purtroppo questa ampiezza avviene a scapito della profondità e si ha come l’impressione di un intervento voluto dal principe di Salina, “affinché tutto cambi perché nulla cambi”, per accontentare gli investitori esteri con il tabù infranto dell’articolo 18 e l’opposizione ricercata della Cgil (segnale del fatto che “è una riforma vera”), ma volendo di fatto conservare lo status quo. Vediamo perché, iniziando dalla flessibilità in uscita, dall’articolo 18.

L’ARTICOLO 18 E LE NUOVE REGOLE DELLA ROULETTE

La riforma dell’articolo 18 non riduce l'incertezza per le imprese dal partecipare alla roulette russa del licenziamento. La nuova norma, stando a quanto dichiarato dal ministro Fornero e ai testi circolati sino a oggi, lascia in vigore il fronte esistente tra licenziamento giuridicamente legittimo e illegittimo, ma ne apre uno nuovo: quello della distinzione fra licenziamenti economici individuali e licenziamenti disciplinari. Fino a oggi, il lavoratore licenziato in maniera illegittima non aveva interesse a chiedere di far valere la distinzione fra licenziamento disciplinare e licenziamento economico. Con la nuova norma, la distinzione diventa cruciale. Col licenziamento disciplinare, infatti, il lavoratore è maggiormente compensato e, giudice permettendo, può essere reintegrato. La distinzione fra licenziamento economico e disciplinare è nella pratica molto labile. Chi è davvero in grado di stabilire se un lavoratore è poco produttivo perché lavora male (licenziamento disciplinare) o perché inserito in un’unità in crisi in cui non può “dare di più” (licenziamento economico)? In verità, tutte e due le ragioni sono sempre vere, altrimenti l’azienda non lo avrebbe licenziato. Per questo il contenzioso inevitabilmente finirà per riguardare anche la qualifica, economica o disciplinare, del licenziamento.
Insomma, con la riforma si trasferisce un potere enorme ai giudici che, d’ora in poi, dovranno prendere le seguenti decisioni:

  1. Se il licenziamento è legittimo o illegittimo.
  2. Nel caso in cui fosse illegittimo, se è discriminatorio o non discriminatorio.
  3. Nel caso in cui non sia legittimo e non discriminatorio, se il licenziamento è economico o disciplinare.
  4. Nel caso in cui il licenziamento sia disciplinare, se si deve imporre la reintegrazione o solo il risarcimento del lavoratore.

Si aumenta così l’incertezza del procedimento e molto probabilmente la sua lunghezza anche perché interverrà obbligatoriamente un tentativo di conciliazione. Chi guadagnerà veramente dalla  riforma non saranno né le imprese, né i lavoratori, bensì gli avvocati specializzati in cause di lavoro.
Rimane l’incentivo per le imprese a procedere a licenziamenti collettivi anziché individuali. I primi costano molto di meno dei secondi. È paradossale che la legge incoraggi le imprese a decidere licenziamenti in massa anziché a graduarli nel corso del tempo onde ridurre gli effetti negativi sul mercato del lavoro locale. Infine, nulla cambia per le piccole imprese, quelle con meno di 15 addetti, a dispetto da quanto dichiarato dal ministro Fornero. I licenziamenti discriminatori erano nulli per queste imprese già prima della riforma.

IL MANCATO RIORDINO DEGLI AMMORTIZZATORI

Non c’è allargamento nella platea dei potenziali beneficiari degli ammortizzatori sociali, estesa dalla riforma ai soli apprendisti e artisti-dipendenti, meno di 300mila persone in tutto. I lavoratori a progetto e i precari continueranno a essere esclusi. Non c’è riordino degli strumenti esistenti. Ad esempio, non verrà abolita la cassa integrazione straordinaria, né di fatto la cassa integrazione in deroga, che è destinata a trasformarsi in un ampio numero di fondi di solidarietà, presumibilmente uno per settore produttivo. Né viene soppresso il sussidio di disoccupazione a requisiti ridotti e l’indennità speciale per i lavoratori agricoli e nell’edilizia, che servono oggi per lo più a integrare i salari di chi già lavora, piuttosto che ad aiutare chi ha perso il lavoro e ne sta cercando un altro. Vero è che la riforma si propone di dare i sussidi solo a chi è disoccupato, ma non è chiaro come si raggiungerà questo obiettivo tenendo in vita strumenti (e amministrazioni che li gestiscono) che sin qui hanno operato in modo molto diverso.
L’obiettivo essenziale di una riforma degli ammortizzatori deve essere quello di costruire pilastri assicurativi che siano in grado di reggersi sui contributi degli assicurati, lavoratori e imprese. L’equilibrio finanziario degli strumenti non deve necessariamente valere anno per anno, ma nell’ambito di un intero ciclo economico. Un buon sistema dovrebbe accumulare dei surplus durante i periodi di crescita, se necessario aumentando i contributi di lavoratori e imprese quando l’economia tira, e usare i surplus per pagare i sussidi e ridurre i contributi di lavoratori e imprese durante le recessioni. Il tutto senza richiedere l’intervento della fiscalità generale. Questa deve servire solo per finanziare l’assistenza sociale di base, quella riservata a chi ha esaurito il periodo di fruizione massima delle assicurazioni sociali, schemi a orario ridotto e sussidi di disoccupazione, e altrimenti cadrebbe in condizione di povertà.
Avevamo già sostenuto che la recessione non è il momento migliore per avviare queste riforme. Si rischia, infatti, di far decollare nuovi strumenti che sono strutturalmente in passivo e che richiederanno, ben oltre la recessione, trasferimenti dalla fiscalità generale. Siamo sicuri che nell’ambito della trattativa sono state svolte simulazioni dei costi dei nuovi strumenti e delle entrate contributive che verranno loro destinate. Sarebbe opportuno rendere edotti di queste stime tutti i contribuenti, dato che rischiano di doverci mettere altro, non preventivato, di tasca loro.

IL DUALISMO PRECARI NON PRECARI E IL “PARADOSSO” DEL COSTO DEL LAVORO

La riforma ridurrà in parte le differenze tra lavori precari e non. I lavori precari costeranno di più in termini di contributi, sia nel caso di contratti a tempo determinato che di lavori a progetto. Ciò avviene aumentando il cuneo fiscale, la differenza tra costo del lavoro pagato dalle imprese e reddito netto percepito dal lavoratore. Nel caso di un vero riordino degli ammortizzatori, l’aumento dei contributi avrebbe potuto apparire ai lavoratori come un premio assicurativo piuttosto che una tassa. Così il legame fra contributi e prestazioni sarà tutt’altro che evidente.
In assenza di un salario minimo, nel caso di lavoratori a progetto e altri lavoratori parasubordinati, il maggiore carico contributivo potrà facilmente essere fatto pagare al dipendente sotto forma di salari più bassi. I lavoratori parasubordinati stanno già ricevendo lettere dai datori di lavoro in cui si annunciano riduzioni del loro compenso nel caso di riforme che aggravino i costi delle imprese.

I MECCANISMI DI ENTRATA

Il meccanismo principale di entrata sarà quello dell'apprendistato. È un contratto che offre poche protezioni durante il periodo formativo, perché può essere interrotto al termine del periodo di apprendistato senza alcun indennizzo. Inoltre si applica soltanto ai giovani fino a 29 anni, mentre oggi più del 50 per cento dei lavoratori precari ha più di 35 anni. Le parti sociali si aspettano anche un alleggerimento fiscale per l’apprendistato. Quello di aver aperto il portafoglio è stato forse il maggiore errore negoziale fatto del governo, poiché non è servito nemmeno a “comprare” il consenso delle parti sociali. E avrà effetti negativi sul deficit di bilancio. Non c’è neanche il gradualismo nelle tutele, il loro incremento progressivo con l’anzianità di servizio che avrebbe incoraggiato i datori di lavoro a offrire fin da subito contratti a tempo indeterminato.
In conclusione, gli interventi sul dualismo possono peggiorare la condizione dei lavoratori duali e aggravano i costi delle imprese senza offrire una vera e propria nuova modalità contrattuale in ingresso. Tutto questo rischia di ridurre fortemente la domanda di lavoro.
La vera sconfitta e il vero paradosso sarebbe proprio quello che la grande riforma non solo cambi tutto per non cambiare nulla, ma addirittura riduca il numero dei lavoratori occupati.

LA ROULETTE RUSSA DELL'ARTICOLO 18

di Andrea Ichino e Paolo Pinotti 03.03.2012

La protezione di un diritto fondamentale della persona è affidata alla roulette russa che si attiva con l’assegnazione casuale dei processi per cause di lavoro a giudici molto diversi tra loro per tempi e orientamento della decisione. È quanto emerge da una ricerca sulle cause tra lavoratori e datori di lavoro nei tre maggiori tribunali italiani: Milano, Roma e Torino. Gli esiti di ogni azione sono affidati, in ultima istanza, al caso.

“Monetizzare i diritti” è considerato un segno di inciviltà da una parte dell’opinione pubblica italiana, che in alternativa preferisce affidare la loro tutela ad un procedimento giudiziale. Ad esempio, per difendere il lavoratore da licenziamenti ingiusti si preferisce chiedere al giudice di valutare l’esistenza di un giustificato motivo o di una giusta causa, invece di stabilire, come accade in altri paesi, un prezzo monetario, magari molto alto, che l’azienda debba pagare al lavoratore per essere libera di sciogliere il rapporto di lavoro.

I TRIBUNALI DI MILANO, ROMA E TORINO

Ma, fanno bene i lavoratori ad affidare ai giudici la tutela dei loro diritti? Abbiamo selezionato i casi di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo oggettivo o soggettivo, iscritti a ruolo nei Tribunali di Milano, Roma e Torino negli anni 2003-2005.  Si tratta, rispettivamente, di 3419, 6444 e 1736 casi nelle tre città, affidati a 22, 56 e 14 giudici, con un carico medio per giudice di 155, 115 e 124 di questi casi. Abbiamo escluso i giudici (e i relativi casi) che in questi tre anni hanno ricevuto in assegnazione meno di 50 processi per licenziamento. Queste esclusioni ci consentono di confrontare tra loro solo giudici che abbiano trattato un campione statisticamente significativo di casi. (1) Per il 98 per cento  di queste controversie osserviamo la storia completa, dall’iscrizione a ruolo alla conclusione che normalmente coincide con il deposito della sentenza (in primo grado) o con la conciliazione. (2) Quindi possiamo calcolare la durata completa della quasi totalità di questi processi per licenziamento.
La Tabella 1 mostra che la durata media è molto diversa nei tre tribunali: 266 giorni a Milano, 429 a Roma e 200 a Torino. Se le cause di licenziamento fossero simili nelle tre città, verrebbe naturale chiedersi per quale motivo i lavoratori di Roma (e i rispettivi datori di lavoro) debbano aspettare il doppio di quelli di Torino e oltre un terzo in più di quelli di Milano per conoscere la loro sorte.
Però è possibile che i casi di Roma siano più complessi di quelli delle altre città e quindi richiedano più tempo per essere decisi. Il confronto corretto può solo essere fatto tra giudici di uno stesso tribunale, perché, all’interno di ciascuna sede, i processi iscritti a ruolo sono assegnati a sorte tra i diversi magistrati. Quindi, per la legge dei grandi numeri, ogni giudice di uno stesso ufficio dovrebbe avere, mediamente, casi di pari complessità. Per questo motivo consideriamo solo giudici che abbiano ricevuto almeno 50 assegnazioni nel periodo considerato. E questo ci consente di verificare statisticamente che, in effetti, le caratteristiche osservabili dei processi assegnati ai diversi giudici sono mediamente simili. Ad esempio, lo sono le proporzioni di ricorsi per giusta causa o giustificato motivo.

C’È GIUDICE E GIUDICE

Nella Figura 1, ogni barra verticale corrisponde ad un giudice e l’altezza della barra misura la durata media dei processi per licenziamento a lui o lei assegnati casualmente. È evidente che, all’interno di ciascun tribunale, i tempi medi di conclusione dei processi non sono simili per i diversi giudici, nonostante i casi loro assegnati abbiano complessità comparabili. La Tabella 1 indica, ad esempio, che a Roma il lavoratore e l’impresa che per sorte vengano assegnati al giudice mediamente più veloce possono sperare di veder decisa la loro causa in 179 giorni. I giorni diventerebbero invece 693 se venissero assegnati al giudice più lento: un incremento di quasi 4 volte. Se, prudenzialmente, vogliamo escludere i giudici più lenti o più veloci del 10 per cento dei  loro colleghi, il lavoratore e l’impresa fronteggerebbero, sempre a Roma, una forbice di durate che varia da 284 a 569 giorni: un incremento di oltre 2 volte tra la durata inferiore e quella maggiore. A Milano e Torino le differenze tra giudici veloci e lenti non sono meno sorprendenti: escludendo gli outliers, si passa da 193 a 333 giorni nel capoluogo lombardo e da 97 a 318 in quello piemontese. Anche in questi tribunali, quindi, le durate dei processi possono, rispettivamente, quasi raddoppiare o più che triplicare a seconda del giudice a cui il caso viene per sorte assegnato.

COME UNA LOTTERIA

Per l’impresa, la lotteria generata da questa forbice di durate è particolarmente costosa perché qualora il giudice decidesse in favore del lavoratore, il datore di lavoro dovrebbe versare a lui o lei non solo la retribuzione non pagata nelle more del giudizio e i relativi contributi sociali. Dovrebbe anche pagare all’Inps una multa sostanziosa per gli omessi contributi sociali, multa che aumenterebbe o diminuirebbe a seconda di quanto tempo impiega il giudice a decidere.
Però la domanda che ci siamo posti è se convenga ai lavoratori affidarsi ai giudici per tutelare i loro diritti e, da questo punto di vista, i costi per le imprese legati ai tempi di decisione possono apparire poco rilevanti. Sebbene sia difficile pensare che questi tempi siano irrilevanti per un lavoratore, essendo in gioco la possibilità di rimanere senza stipendio per 693 giorni invece che 179, come ad esempio accade a Roma, è probabile che ciò che conta maggiormente per i lavoratori sia la probabilità che il loro ricorso contro il licenziamento sia accolto. Ma anche in questo caso, dai dati emerge che l’accertamento giudiziale del giustificato motivo è una roulette russa.
La Figura 2 descrive la probabilità dei diversi esiti di un processo per licenziamento nei tribunali di Milano e Roma (il dato non è disponibile per Torino). Per ogni giudice, fatto 100 il numero totale dei processi a lui o lei assegnati, le quattro parti della barra verticale misurano le proporzioni di sentenze favorevoli al ricorrente (ossia il lavoratore nella stragrande maggioranza dei casi), (3) di sentenze favorevoli al convenuto (il datore di lavoro), di conciliazioni e di altri esiti.

L’INCERTEZZA DELL’ESITO

A Milano, ad esempio, l’ultimo giudice sulla destra della tabella è favorevole al lavoratore circa 4 volte più frequentemente che il primo giudice sulla sinistra. Quest’ultimo infatti decide il 7 per cento dei casi a favore del lavoratore, mentre il suo collega all’estremo opposto decide a favore del lavoratore il 27 per cento dei processi. L’incertezza di esito a seconda del giudice assegnato è ancora maggiore per l’impresa che può passare da un giudice a lei favorevole solo nel 2 per cento dei casi fino ad un giudice che invece le da ragione nel 20 per cento dei casi, con un incremento di ben 10 volte della probabilità di vittoria. A Roma, è la probabilità di vittoria del lavoratore che può aumentare di  10 volte a seconda del giudice: dal 4 per cento del primo giudice a sinistra nella Figura 3, al 40%  dell’ultimo giudice sulla destra. La forbice per le imprese è invece più contenuta, ma sempre considerevole, passando dal 4 per cento al 19 per cento di probabilità di vittoria. È interessante notare che mentre a Milano nessun giudice emette sentenze favorevoli alle imprese più frequentemente di quelle favorevoli al lavoratore, a Roma i lavoratori non possono certamente contare su una totalità di giudici a loro favorevoli.
Purtroppo non abbiamo dati sufficienti per valutare quale delle due parti possa considerare la conciliazione come una quasi-vittoria. Ma, in ogni caso, anche la probabilità di questo esito varia molto tra i giudici nonostante il loro portafoglio di casi sia simile. A Milano si passa infatti da giudici che inducono le parti ad una transazione nel 49 per cento dei casi, fino a giudici per cui questo esito si verifica nel 76 per cento delle controversie, mentre a Roma la differenza tra le percentuali corrispondenti è ancora più ampia, passando dal 27 per cento al 69 per cento.
Sotto l’ipotesi che la frazione di sentenze favorevoli al lavoratore emesse da un giudice sia proporzionale al grado in cui le conciliazioni indotte dallo stesso giudice siano favorevoli al lavoratore, possiamo concludere che, anche tenendo conto dell’elevato numero di conciliazioni, la lotteria derivante dall’assegnazione casuale dei processi ai magistrati di un tribunale implica probabilità di vittoria molto differenti a seconda della sorte.

QUEL CHE I SINDACATI NON SANNO

Se a tutto questo si aggiungono i risultati di uno studio del 2003 di Michele Polo, Enrico Rettore e Andrea Ichino, secondo cui giudici diversi decidono diversamente casi molto simili a seconda della regione in cui il rapporto di lavoro ha luogo e in funzione del tasso di disoccupazione locale, viene naturale chiedersi se davvero affidarsi alla magistratura sia un buon modo per tutelarsi dal punto di vista dei lavoratori, data l’alea che questo affidamento implica.
Forse i lavoratori e i sindacati pensano che sia meglio così solo perché non hanno mai visto questi numeri. Ma la nostra impressione è che questo stato di cose serva solo ad arricchire gli avvocati e costringa i giudici ad occuparsi di controversie che potrebbero benissimo essere risolte in altro modo: ad esempio stabilendo un prezzo adeguato per la possibilità di licenziare, quando ovviamente il motivo non sia discriminatorio e il lavoratore non abbia commesso colpa grave.
In ogni caso, se davvero la disciplina attuale dei licenziamenti fosse posta a protezione di un diritto fondamentale della persona, come può ammettersi che questa protezione sia affidata alla roulette russa che si attiva con l’assegnazione casuale dei processi a giudici così diversi tra loro per tempi e orientamento della decision

(1) Il numero totale di giudici che in qualche momento dei tre anni considerati hanno prestato servizio nelle Sezioni Lavoro dei tre tribunali è stato quindi superiore a quello indicato:  di 6 unità a Milano, di 10 a Roma e di 1 a Torino.
(2)
In una minoranza di casi sono possibili anche altri esiti, come ad esempio la dichiarazione di incompetenza territoriale da parte del giudice. In questi casi la durata del processo viene calcolata dall’iscrizione a ruolo alla data dell’evento di chiusura del caso.
(3)
Per il Tribunale di Roma, ad esempio, possiamo verificare che il ricorrente è persona fisica nel 97.2% dei casi.

(4)Are judges biased by labor market conditions”  European Economic Review, 2003. In particolare, i giudici decidono in modo più favorevole al lavoratore quando il tasso di disoccupazione è alto e viceversa. Lo studio è basato sui dati di una grande banca italiana con sedi sparse sull’intero territorio nazionale e analizza non solo i casi che arrivano in giudizio ma la totalità delle controversie tra questa azienda e i suoi lavoratori, così come identificate dalle lettere con cui l’azienda ha contestato ai lavoratori le loro mancanze. Lo studio mostra anche che i casi che arrivano a sentenza non sono necessariamente rappresentativi dei casi potenziali, proprio per via dell’orientamento atteso dei giudici. Se le aziende si attendono giudici maggiormente orientati a favore dei lavoratori, licenziano solo in casi estremi che possono essere vinti in giudizio.

NOSTRO COMMENTO: I patiti del lavoro ed i cittadini in generale hanno un quadro completo della riforma del lavoro. Buon divertimento! A Noi così come l'ha fatta Monti NON PIACE. Fa bene la Camusso a fare scioperi. Sarà difficile che - anche se la riforma è stata presentata nella forma del disegno di legge con una discussione in Parlamento -  si possa arrivare ad un accordo in tempi brevi. PD e PDL, come al solito,  sono su posizioni divergenti.  Insomma! Finchè i cittadini non cambiano il quadro politico attuale mandando definitivamente a casa Berlusconi e tutti i suoi sodali e ripulendo opportunamente PD, UDC ed altri partitini insignificanti che ruotano nel Centro, l'Italia non avrà una vita facile. Ovviamente tutto a scapito dell'occupazione e della democrazia in generale. Le elezioni del 2013 sanciranno definitivamente i destini dell'Italia. E' l'ultima occasione!  Dopodicchè, se dovessero ripresentarsi e risultare gli stessi politici di oggi, per l’Italia,  ci sarà solo “IL BARATRO”.

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