Per andare nel pannello di amm.ne del sito libertadiopinione.it digitare:
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Questo contributo del Prof. Avv. Luciano Maria Delfino è inserito nella parte specialistica del volume “MILANOPUNTOZERO MANIFESTO D’INTENTI 2021 – GUARDARE AL FUTURO CON OCCHI PULITI” di cui è autore l’Avv. Giampaolo Giorgio Berni Ferretti Presidente di “MilanoVapore” in corso di pubblicazione per i tipi di Colosseo editore di Andrea Menaglia - Roma 2020]
Questa nostra stagione sconquassata dall’esperienza dolorosa e devastante dell’emergenza sanitaria imposta dalla ferocia del corona virus (Sars-CoV-2) – anche a causa dell’oggettivo e non esaltante spettacolo di efficienza offerto da tutte, senza distinzioni, le istituzioni di governo e di gestione – ci consegna un Paese affondato nelle sabbie mobili di quella che, anche in questa occasione, si è dimostrata essere la vera esiziale patologia del sistema Italia: la burocrazia.
Il potere burocratico, in quanto portatore di propri e strutturati interessi, si manifesta, al pari di un nodo gordiano che avviluppa ed attanaglia il (nostro) tessuto sociale e che evidenzia, in forma assolutamente paradigmatica, il fenomeno ormai divenuto devastante della colpevole sottrazione delle libertà civili da parte di uno Stato che ha ampliato a dismisura – fra l’altro, e per assurdo, con l’avallo di un’opinione pubblica drogata da quel fenomeno che tecnicamente va sotto il nome di isteria collettiva – il suo ruolo sino al punto di giungere a snaturare nella sostanza il modello costituzionale della Repubblica.
A tale non fisiologico risultato, nel considerato periodo di pandemia, si perviene attraverso l’utilizzazione di un’abborracciata quanto sterminata, in termini quantitativi, produzione legislativa di rango primario e secondario, colpevolmente aggravata dall’abuso continuo e costante dello strumento della decretazione d’urgenza e dallo sconsiderato ricorso ai decreti ministeriali, in particolare ai DPCM, cui si aggiungono le non poche ordinanze delle Regioni (oltre 200), e le migliaia di ordinanze emanate dai Sindaci di tutto il Paese.
Disposizioni tutte non chiare ed il più delle volte neppure ragionevoli ed addirittura, per quanto attiene ai decreti, costituzionalmente illegittime sotto il profilo formale, per palese violazione della riserva di legge (assoluta) postulata dalla Carta giacché, come è noto, l’esercizio del potere in democrazia va formalmente assoggettato a legge e per l’additiva, ulteriore considerazione che gli stessi non possono, come invece è stato fatto, essere portatori di un’inammissibile, perché generica, delega di poteri, in ragione dell’obiettiva evidenza che il rispetto della Costituzione e delle leggi costituisce un dovere assoluto per l’autorità.
Ci troviamo, infatti, davanti ad un profluvio di norme che si sovrappongono le une alle altre che promanano, come sopra ricordato, da soggetti istituzionali diversi (Stato, Regioni, Comuni) che hanno in comune soltanto l’impulso vocazionale (fil rouge) di regolare con ossessiva pervicacia ognuno e tutti gli aspetti disciplinari presi in considerazione piuttosto che l’intelligenza di delineare, come sarebbe stato più logico, una articolata e flessibile cornice di regole affidando il sicuramente più produttivo loro campo di azione alla consapevole responsabilità comportamentale dei cittadini, come si è fatto in altri Paesi.
La descritta irragionevole ipertrofia legislativa, sostanziatasi nella inutiliter data elefantiaca produzione di centinaia di pagine, determina, senza tema di smentita, una facilmente rilevabile condizione di incertezza interpretativa ed un del tutto oggettivo e comprensibile smarrimento psicologico nella popolazione che si trova a doversi destreggiare tra norme fra loro contraddittorie e di contenuto obiettivamente incerto le quali decisamente generano un indiscutibile, pesante clima di sfiducia nei cittadini e nel contempo producono un profondo scetticismo nei confronti delle istituzioni di governo che, ex se, sicuramente contribuisce alla delegittimazione delle istituzioni medesime.
Le troppe norme che limitano la libertà dei cittadini, infatti, rendono, de jure et de facto, il potere dello Stato irresponsabile in quanto le stesse invece che arginare detto potere indiscutibilmente lo rafforzano.
A siffatta già discratica situazione va aggiunto che – sia sotto il profilo quantitativo che soprattutto sotto l’aspetto qualitativo – le prefate norme, diverse sui singoli punti di trattazione, non seguono un filo logico unitario, tant’è che i cittadini e le stesse forze dell’ordine in sede applicazione e di controllo delle medesime non sanno ben orientarsi su quale comportamento assumere.
Un incredibile ma purtroppo reale guazzabuglio questo, che porta ad identificare nelle assemblee legislative la prima e più rilevante sede nonché perniciosa causa della, già di per sé impossibile a gestire, burocrazia italiana.
Non appare inutile rilevare che siffatto modus operandi costituisce ex se la più importante e paradigmatica delle prassi tipiche dei momenti di crisi che affliggono il funzionamento fisiologico di qualsivoglia (non solo italiano) modello di democrazia rappresentativa.
Ad una situazione già di per sé compromessa, la deflagrazione del virus imprime una forte accelerazione al richiamato e già in atto processo di disgregazione del modello costituzionale, che rimane ulteriormente inciso, e purtroppo in misura estremamente significativa, oltre che dall’emergenza salute anche dalla intervenuta privazione delle libertà fondamentali dei cittadini (di movimento, di riunione, di culto, di lavoro, di tutela del risparmio, di istruzione, di iniziativa economica etc.), nonché dalle ulteriori limitazioni, imposte non con legge (DPCM) allo stesso diritto di proprietà; diritti tutti riconosciuti come tali dalla Carta costituzionale.
Ciò che differenzia una società libera e liberale, rispetto a quelle c.d. pianificate, risiede nel fatto che nella prima condizione “tutto è permesso a meno che non sia espressamente vietato” mentre nella seconda “nulla è permesso se non esplicitamente previsto”.
L’intervento contingente dell’apparato nel suo complesso, messo in campo per fronteggiare l’emergenza pandemica, dimostra di orientarsi verso la seconda ipotesi di società. Esperienza, questa, non nuova nel Paese che resta, in tempo anteatto all’emergenza, preceduta, fra le tante, dall’aberrazione dell’inversione dell’onere della prova in campo tributario in ragione della quale è paradossalmente il contribuente a dovere dimostrare la propria innocenza e non già l’amministrazione a provare la colpevolezza di quest’ultimo.
Quanto rilevato costituisce l’attestazione e la conferma che ci troviamo davanti ad una classe politica assolutamente inadeguata e che per ciò stesso si consegna per essere eterodiretta all’apparato burocratico il quale, per sua (in)cultura intrinseca e per mancanza di preparazione specifica, non è in condizione di mettere in campo alcuna seria e producente capacità gestionale, bensì soltanto l’unica triste idoneità di abborracciare, attraverso un processo di insana stratificazione, regole su regole, il più delle volte di dubbia caratura qualitativa.
La situazione pandemica oltre che metterci di fronte ad una incredibile, sotto il profilo della gravità, emergenza di tipo sanitario ci pone altresì anche al cospetto di un’altrettanto drammatica congiuntura di natura economica che fa emergere, con incombente rilievo, la necessità di dover operare in direzione di un rilancio produttivo del sistema Paese.
Programma la cui realizzazione effettuale non va disgiunta dall’altrettanto indifferibile esigenza di prontamente agire ed incidere su un organismo, alla prova dei fatti, inidoneo, così com’è, a porsi concretamente l’obiettivo del raggiungimento della prefata finalità di rimediare all’immanente disastro economico e finanziario, senza, prima o nel contempo, dar vita e corpo ad una concreta ed effettiva rimodulazione dell’intero assetto ordinamentale.
Infatti, nelle congiunture importanti, siano esse di interesse nazionale che di carattere internazionale, la formula adeguata per far fronte all’incalzare di eventi eccezionali è, unicamente, quella di avere (e non è questo il caso dell’Italia) o di riuscire ad approntare un asset istituzionale caratterizzato da strutture fondamentalmente agili che consentano al medesimo organismo di adattarsi con intelligente flessibilità al mutamento delle condizioni economiche, finanziarie e sociali che intervengano o che possano succedersi in un tempo di crisi come l’attuale.
Non appare inutile ricordare che la parola crisi, oggi purtroppo tanto minacciosamente ricorrente, anche sui mass media, è sostantivo di etimologia greca. Essa deriva dal verbo krino (dividere, separare), ed è espressione concettuale propria delle situazioni di difficoltà e che ha quale paradigma di riferimento il complesso sistema dei valori e delle relazioni istituzionali, oltre che di quelli di natura soggettiva ed individuale, e non già, come talvolta si vuole fare apparire, di natura meramente lessicale.
Crisi significa sofferenza di un modello di vivere che, comunque, ha già in sé gli anticorpi necessari per rinnovarsi e divenire un quid novi. Crisi significa, altresì, dovere scegliere quali bisogni e quali necessità soddisfare, e quali, invece, dover sacrificare. Crisi indica ancora mutamento di rotta, nel senso che i valori che hanno funto sino ad una certa data da bussola o da radicamento, sono in forte sofferenza, per cui occorre avere la forza e la capacità di determinare un nuovo orientamento al fine di procedere al ripristino ovvero al superamento proprio di quei valori nell’ottica del perseguimento di migliori e più funzionali traguardi[1].
L’attuale realtà cronotopica, riflette, invece, un’idea ed un modello di organizzazione dal quale si evince ormai a chiare note che lo Stato, con l’insieme del suo apparato amministrativo e politico, si è, sin qui, via via snaturato rispetto al modello costituzionale, tanto – e ciò è molto grave – da dimostrare, con strabica supponenza, di riflettere una totale o comunque gravissima assenza di fiducia nei confronti dei cittadini e tanto da considerare, in nome di ideologie pauperistiche oggettivamente prive di senso logico il profitto imprenditoriale come disvalore assoluto.
In ragione di siffatto improprio e distorto retropensiero, il sistema istituzionale del nostro Paese – anche con l’ausilio del ricorso all’imposizione di un sistema burocratico nel suo complesso immanentemente ossessivo – interpone una paratia, anzi una vera e propria diga organizzativa fondata su un’incomprensibile, sciagurata ed illogica ostilità nei confronti dei cittadini, delle imprese e del profitto imprenditoriale. Siffatta, in verità, impropria ed insensata azione di apparato – fra l’altro e malauguratamente realizzata, con una visione decisamente e drammaticamente d’antan – mortifica qualsiasi ragionevole sviluppo delle attività produttive degli italiani.
Per verificare l’attendibilità di siffatta e purtroppo amara considerazione è sufficiente far mente locale a tutto un percorso artificiosamente costellato di forche caudine messo in campo dal potere burocratico e che si sostanzia:
nella configurazione di una fiscalità eccessiva;
in un paradossale modello sistemico che rende difficile l’accesso al credito;
nella richiamata farraginosa produzione legislativa e regolamentare, la cui preoccupazione pare soltanto essere quella di imbastire lacci e laccioli per rendere infernale la vita dei cittadini;
in un modello di giustizia esasperatamente lento nella sua applicazione concreta tanto che i suoi decisa appaiono comunque tardivi ed inefficaci, oltre che strutturalmente inidonei a soddisfare in tempi utili qualunque lecito interesse sottoposto al suo sindacato;
in una giurisdizione ed in una giurisprudenza pateticamente aggressive;
in un complesso di attività di controllo sulla qualità e sulla quantità delle prestazioni lavorative sostanzialmente evanescente a causa delle norme sulla privacy;
nel fatto che sono pressoché indefiniti, nel numero e nella loro singola storia, gli atti abilitativi all’esercizio di attività soggette a concessione e/o autorizzazione;
in procedimenti amministrativi ciascuno dei quali connotato dalla propria endemica e defatigante complessità; in una miriade di adempimenti, termini e scadenze spesso inutili e che producono, fra l’altro, un enorme costo di gestione;
e l’elenco potrebbe ancora continuare.
Al cospetto di tale obiettiva situazione di fatto e di diritto svanisce nel nulla la primigenia e di scuola concezione di burocrazia intesa quale “insieme di apparati e di persone al quale è affidata, a diversi livelli, l’amministrazione di uno Stato o anche di enti non statali” sorretta dalla lodevole intenzione di semplificare il rapporto tra i cittadini e le leggi, perché è ormai evidente che la medesima nella sua realità effettuale non è diventata altro che obbligato percorso ad ostacoli per i consociati dal momento che, come sostenuto con paradossale brillantezza da Prezzolini, nel nostro Paese “nulla si può conseguire per vie legali, neppure le cose che sono legali”.
In buona sostanza l’attuale apparato burocratico attraverso la subdola ed ideologica nel tempo archiviazione dei metodi, delle procedure e dei criteri semplici e propri della democrazia liberale, non fa altro che svilire sino al punto da rendere evanescenti tutte le liturgie democratiche del sistema Paese pur tenendo, ipocritamente, le stesse formalmente in vita. Ed in ragione di questo suo anomalo atteggiarsi che il medesimo apparato si dimostra irrispettoso delle libertà e del tutto incapace di reagire tanto alla crisi economica che al modello costituzionale che sostanzialmente ha eviscerato con diabolica perseveranza.
A ben riflettere il sistema nel suo complesso (politico, legislativo, amministrativo e giudiziario) appare oggi come un idolo pagano (Moloch) che con studiato sadismo si occupa ipocritamente di assicurare lo sviluppo di un criterio di uguaglianza non di partenza, come dovrebbe essere in un normale Stato di diritto, bensì di arrivo, limitando l’esercizio delle libertà che permettono ai consociati (cittadini) di distinguersi e di realizzarsi, inadatto com’è, per congenita ed intrinseca incapacità di dare forma logica al proprio pensiero gestionale e ripiegando, peraltro abbastanza confusamente, sui principi informatori dello Stato etico che nel pensiero filosofico sono riconoscibili dalla sintesi tra una tesi, rappresentata dal diritto, e da un’antitesi, impersonata dalla moralità.
In pratica il modello italiano, così come scriteriatamente dipanatosi negli anni, si manifesta, oggi più che mai, come la informale riedizione, abbastanza pasticciata, di un apparato che diviene arbitro assoluto del bene e del male, fondato sulla declinazione apparentemente legittima di un astratto e peraltro non corretto postulato: educare il popolo per realizzare un giusto sistema sociale. In questo disegno la compressione delle libertà, la gamma di restrizioni e le correlative sanzioni assumono un ruolo simbolicamente decisivo e consentono allo Stato di affermare la propria supremazia nonché di dimostrare la giustezza etica delle proprie azioni.
In questa arraffazzonata logica diventa normale la tassazione di rapina, le montagne di scartoffie, i regolamenti kafkiani, l’ostilità alle partite IVA.
La stessa assurda strutturazione tecnica dell’attuale legislazione antimafia concepita e messa in campo sulla scorta dell’illusoria e demagogica considerazione di impedire i disdicevoli effetti della corruzione, alla prova dei fatti si rivela, nella migliore delle ipotesi, una normazione fondata su astratte supposizioni, il più delle volte non corroborate da prove, e fatta di verifiche spesso inefficaci atteso che quasi mai, se non apoditticamente, riesce a rilevare l’effettività delle infiltrazioni della criminalità organizzata nel tessuto sociale. La compressione immotivata degli emolumenti e dei diritti, la forte ostilità nei confronti delle autonomie, ciascuna delle quali e tutte insieme, costituiscono una severa ed ingiustificata condanna per tutti, soprattutto per il Sud.
Il termine burocrazia, o meglio il suo oggi più che evidente eccesso di funzione, viene percepito ed identificato dalla pubblica opinione quale sinonimo di cattiva amministrazione, sia sotto il profilo soggettivo (impreparazione, incapacità ed inadeguatezza dei dipendenti delle P.A.), sia sotto il ben più importante aspetto oggettivo (ipertrofico numero di norme e di procedimenti, disorganici, farraginosi, contraddittori e spesso incomprensibili e, comunque, di difficile applicazione), all’interno dei quali il potere assume la forma dell’atto, con conseguente ed additivo aumento di responsabilità personali, di meccanismi di controllo e di soggetti controllori.
E anche se per vero non occorreva l’attuale crisi da corona virus per rendersi conto dello stato comatoso in cui versa l’insieme degli apparati burocratico-amministrativi del nostro Paese, va comunque evidenziato che, il presente momento, fra l’altro, intriso di profonde difficoltà di natura economica, sociale ed istituzionale rende ormai non più procrastinabile l’esigenza dell’intervento, oltre che di straordinarie misure economiche, finanziarie e fiscali, anche di un’altrettanto massiccia opera di affrancamento dalle pastoie del vuoto formalismo imperante, allo scopo, questo sì nobile, di consentire una catartica liberazione dallo stanco, bizantineggiante e ridondante sistema organizzativo oggi predominante, così da permettere – sempre all’interno della cornice di garanzia e di tutela dell’interesse pubblico – la piena e reale valorizzazione di tutte le energie imprenditoriali presenti nel Paese, di interventi di incondizionato supporto ai nuovi investimenti nonché di un’opera di marcato sostegno alla facilitazione dei consumi.
In buona sostanza appare di primaria necessità dar vita a delle istituzioni pubbliche che nel loro complesso siano nella condizione oggettiva di esprimere un corpus disciplinare capace di disboscare l’incolto terreno delle amministrazioni dall’attuale inestricabile e pletorico groviglio di norme, di inveterati divieti e di non logici comportamenti, al fine di assicurare ai consociati strumenti efficaci ed efficienti atti a garantire stabilità, semplicità, certezza e fiducia alle imprese ed ai cittadini di questo nostro martoriato Paese.
In ragione della descritta esigenza non appare revocabile in dubbio come vada ulteriormente stigmatizzato l’insopportabile fardello di tale già rilevata oppressione burocratica il cui peso si riflette esizialmente nel mondo economico e sociale, atteso che la burocrazia che ci soffoca ed affligge non costituisce altro che la tomba di qualsivoglia opportunità; virus (burocrazia) che non si trasmette con le goccioline, ma con la deprimente consuetudine, il parassitismo e l’assuefazione e nei cui confronti non c’è immunizzazione che tenga, anzi non esiste proprio vaccino.
Non sfugge a nessun essere minimamente raziocinante che l’ansia irrazionale ed astratta di fronteggiare la corruzione nella e della P.A., assieme alle altrettanto giuste esigenze di contrastare i rischi di infiltrazione mafiosa sostanziano, nell’attuale assolutamente e concettualmente imperfetto quadro normativo, le prime e principali cause dell’ingessamento del nostro Paese[2].
A questo va, altresì additivamente associata l’obiettiva evidenza che non è soltanto l’attuale infelice normativa a creare complicazioni, quanto, spesso – ed è quello che qui voglio a chiare note evidenziare – anche l’incombente rischio di una ermeneusi giurisprudenziale delle stesse, arzigogolata e punitiva, che, attraverso l’uso indiscriminato di cavilli e norme di dubbia qualità ed efficacia, avalla, paralizza e penalizza il corretto facere delle Amministrazioni.
Non è inutile ancora sottolineare, al fine di ulteriormente evidenziare il tumultuoso marasma in cui versa l’intera impalcatura della macchina burocratica, che la stessa fase di amministrazione attiva, attraverso i suoi funzionari, risulta, quasi sempre, avviluppata ed attanagliata dal timore, di essi agenti, di soggiacere alla possibile contestazione dell’ipotesi di danno erariale nonché a quella di abuso d’ufficio.
La descritta reale situazione è, purtroppo, il riflesso dell’obiettiva evidenza che il legislatore attuale abdica, in nome di immaginifiche, supposte emergenze, a quello che è, o comunque dovrebbe essere il suo peculiare compito, ossia l’obbligo di disciplinare la realtà in coerenza con i valori ed i bisogni della comunità e non già di umiliare l’assetto civile.
In ragione di tale difficilmente contestabile, discratica situazione legislativa e comportamentale, entrambe obiettive conseguenze dell’isteria contagiosa rappresentata dalla pervicace ossessione di combattere, anche attraverso misure illiberali ed insensate, invece che con le regole proprie dello Stato di diritto, il (detestabile) fenomeno dalla corruzione dell’infiltrazione mafiosa nel corpo del sistema politico ed economico del Paese, si è irrazionalmente giunti – sulla base di strombazzate, apodittiche, mitizzate e supposte situazioni di pericolo emergenziale - a paralizzare il sistema nel suo complesso attraverso l’imposizione di una rete di allucinante oppressione fatta di inestricabili lacci e laccioli dalla quale risulta materialmente impossibile divincolarsi.
Le interdittive antimafia[3];
lo scioglimento per decreto dei consigli degli enti locali;
le strutturali lentezze delle procedure di Consip; il Codice degli appalti, espressione normativa intrisa di obiettivi nonsense e di paralizzanti criticità e la cui plastica inutilità pratica resta dimostrata dal fatto che senza il “gabbio” delle sue norme e dei suoi non felici postulati si è potuto ricostruire, e nel giro di poco più di un anno, a Genova, il nuovo ponte progettato dall’arch. Renzo Piano in sostituzione del crollato ponte “Morandi”, nonché realizzare, nel giro di qualche settimana l’ospedale di emergenza in Fiera a Milano (idea progettuale, fra l’altro, specularmente riprodotta, anche nelle modalità di esecuzione, a Berlino dai tedeschi) e l’ospedale pandemico di Civitanova Marche;
la sostanziale sopravvivenza dell’assurdo criterio del massimo ribasso nelle gare che porta con sé l’ignobile fardello di consentire la realizzazione di opere pubbliche, talvolta neppure portate a compimento, e, fra l’altro, di discutibile sicurezza strutturale, poste in esecuzione attraverso una rete - essa si da colpire - di indegne connivenze; il mancato controllo da parte della mano pubblica e/o l’assenza di monitoraggio continuo degli standard di sicurezza delle opere nel tempo, al fine di evitare eventi negativi di significative proporzioni (come ad esempio è avvenuto nel caso del viadotto della Valpocevera, ponte “Morandi” o, di recente, dell’accartocciamento del ponte di Caprignola che collega la provincia di La Spezia a quella di Massa);
la creazione dell’ANAC (intesa quest’ultima autorità addirittura non come ente di consulenza e di analisi di dati a vantaggio e supporto delle P.A. bensì quale ennesima, non necessaria ed ulteriore soffocante presenza nel già più che pletorico novero degli organismi di controllo), ne costituiscono palmare riprova.
L’insieme del complesso di questi organismi – in uno con la sovrapposizione nel tempo di norme, regolamenti, procedure ed adempimenti, determinano l’incertezza del diritto, dei diritti e dei doveri nonché una sempre maggiore complicazione dell’attività amministrativa ed economica, e, fra l’altro, fungono, ognuno e tutti, da alibi e da comodo usbergo per amministratori e funzionari pavidi, i quali, invece di esercitare con onore le proprie funzioni, si accucciano dietro siffatto paravento, aspettando comunque di avere contezza della più o meno illuminata consulenza di detti organismi prima di assumere qualunque decisione, dalla più insignificante alla più importante, facendo così perdere, nella migliore delle ipotesi, del tempo prezioso nel provvedere.
Tempo che come si sa, oltre che essere un bene fra i più preziosi se non il più prezioso dell’agire umano è anche connotato essenziale di ogni funzionale scelta strategica sia essa di natura giuridica che economica anche delle P.A.[4].
Il codice degli appalti non va riscritto, va eliminato e sostituito come è avvenuto per Genova con il lasciapassare all’utilizzazione delle direttive europee in subiecta materia che esprime un più efficace e producente modello sistemico, alternativo e consequenziale che può essere replicato tout court in ogni parte d’Italia e che riduce radicalmente il numero di adempimenti, di procedimenti e di vincoli, regole e regolette consentendo il felice espletamento di un numero maggiormente cospicuo e produttivo di gare.
Che senso ha, infatti, se non per determinare inutili perdite di tempo (anni) presentare una serie di progetti prima di pervenire a quello definitivo e poi ancora a quello esecutivo per giungere infine all’appalto, a cui vanno aggiunti le impedenze metereologiche ed il rischio di un ulteriore rallentamento dei tempi stessi rappresentato dall’incombente e non peregrina eventualità di esperimento, da parte dei non aggiudicatari, di gravami giurisdizionali davanti agli organi della Giustizia Amministrativa (TAR e Consiglio di Stato).
In quest’ottica e con questo metodo di apertura al fare, obiettivamente e profondamente innovatore rispetto al deprimente status quo ritengo, vadano mobilitate tutte le opere pubbliche già autorizzate nei bilanci di competenza di Stato, Regioni ed Amministrazioni locali, insulsamente bloccate dalle attuali farraginose procedure e riguardanti i settori dell’edilizia scolastica, della difesa del suolo, delle infrastrutture viarie (si pensi alla Gronda di Genova ed alla SS 106 Jonica in Calabria), delle opere urgenti, anche di manutenzione, afferenti ponti e strade tanto ad opera di imprese pubbliche, come ANAS, e private, quali ad esempio Autostrade per l’Italia, dei piani per l’alta velocità ferroviaria anche per il Sud e per la valorizzazione delle reti ordinarie, dei progetti di lavori del sistema portuale del Paese, dei programmi di rifacimento e di riparazione degli innumerevoli acquedotti ammalorati.
Di fronte a tale evidente disastro, che, irragionevolmente e senza scusanti, destabilizza e violenta i fondamenti propri dello Stato di diritto e gli altrettanto meritevoli di tutela diritti fondamentali dei cittadini nonché determina, in nome di un supposto principio di legalità – peraltro assurdamente distinto da quello di libertà (Piero Calamandrei infatti ci ha insegnato: “non può esservi legalità senza libertà”) – mal interpretato ed altrettanto peggio normativamente espresso, la cancellazione dal mondo del lavoro di imprese e lavoratori laboriosi ed indefessi, con il risultato di pressoché azzerare o comunque gravemente compromettere l’economia delle stesse imprese e della Nazione, ritengo sia indispensabile provare, tutti insieme, ad accendere tutte le luci possibili dell’intero firmamento della civiltà giuridica, per dare nuova linfa e nuova vigoria alla fonte dei principi costituzionali alla quale ci siamo tutti orgogliosamente abbeverati e formati.
Occorre aver il coraggio, come cittadini, di dire basta, una volta per tutte, alla supina soggiacenza all’attuale reso immunodepresso sistema Italia, gestito da soggetti senza patria, che fanno del giustizialismo, della negazione della conoscenza, dell’oscurantismo e della negazione delle libertà la propria ragion d’essere;
di impegnarsi a far rinascere il senso ed il valore liberatorio della giustizia (oggi, malauguratamente messo in discussione dai gravi scandali imputabili a non pochi dei suoi agenti istituzionali) così da consentire di affrontare efficacemente ogni emergenza, compresa l’attuale, peraltro, ictu oculi, impropriamente legittimata dal manto di fragili argomentazioni contingenti, di natura confusamente etica – intrisa di non commendevole giustizialismo abbinato all’idea distorta di una giurisdizione esclusivamente orientata a ravvisare comunque, costi quel che costi, un colpevole da sanzionare, sulla scorta del non fisiologico, anzi aberrante pregiudizio secondo il quale è l’effetto della punizione a giustificare l’esistenza del precetto normativo – piuttosto che giuridica (Stato di diritto);
di spingere con dignitoso orgoglio per l’avvio immediato di un’articolata e decisiva riforma legislativa che preveda lo snellimento concreto della macchina burocratica nel suo complesso;
procedure amministrative più flessibili e meno adempimenti formali nonché l’eliminazione della gran parte di tutte le complicazioni (legislative e burocratiche) che oggi appesantiscono l’efficacia dell’agire delle P.A. e finalmente riuscire a mandare in soffitta il cappio di irragionevole sospetto che opprime e sottrae capziosamente ad ogni cittadino l’esercizio pieno dei propri diritti fondamentali.
In tale ottica per un serio progetto di ricostruzione economica e per recuperare il gap competitivo del Paese e la capacità di attrazione dei singoli territori, si impone
la drastica riduzione della pressione fiscale,
la necessità di addivenire alla semplificazione delle norme e delle procedure amministrative attraverso la riduzione, in un quadro unitario di riferimento, della complessità delle leggi e la realizzazione di procedure certe anche nei tempi del loro esperimento;
la concreta valutazione ex ante dell’impatto delle nuove norme nonché un più agile accesso alle informazioni necessarie all’auspicato processo di adeguamento; una migliore digitalizzazione dei servizi;
l’alt alla continua richiesta di sempre ulteriore documentazione da parte delle P.A.;
l’applicazione del concetto della c.d. decertificazione per alleggerire l’assurdo peso degli adempimenti;
la drastica riduzione del numero delle autorizzazioni e dei permessi per l’apertura di qualsiasi azienda o esercizio;
la previsione di procedure edilizie più celeri e con meno commistione di adempimenti;
la limitazione della sovrapposizione di competenze;
un piano di controlli formali meno assillanti; ed infine l’obbligo di sanzionare la mancata assunzione di responsabilità da parte dei funzionari.
Occorre in buona sostanza costruire un sistema di adempimenti che esalti le libertà invece che opprimerle.
Sarebbe la più bella delle vittorie poter godere della caduta del muro dell’attuale e pervasivo potere burocratico insensatamente fondato sulla dissuasione e sui paralizzanti “non posso pendermi la responsabilità, manca una firma, è competente un altro ufficio, il funzionario è in ferie”.
Purtroppo a far sfumare il plastico ordine dell’ipotesi di normalità sognata e dianzi prospettata, interviene, ancora una volta, il Governo con il monstrum giuridico definito fantasiosamente “Decreto rilancio”, la cui abnorme prolissità contenutistica sia in pagine che in articoli riflette paradigmaticamente l’odiosa cultura della diffidenza verso il libero agire dei cittadini e delle imprese e che si compendia nel leitmotiv di sempre: il potere burocratico ed il suo devastante funzionarismo vanno gelosamente preservati per il loro ruolo di “motore immobile”, di sentinella occhiuta dello stare decisis.
Svanisce così, ancora una volta un’occasione d’oro, un’opportunità concreta di riuscire ad affrancare il Paese dal cappio di un sistema burocratico connotato da tempi e costi che lo rendono obiettivamente insopportabile, forse il peggiore d’Europa.
Che tristezza!
[1] Delfino L.M. “L’importanza degli studi classici nella formazione universitaria europea” in Racconto di un anno, Figure ed eventi. Celebrazione del bicentenario della fondazione del Liceo Classico “Tommaso Campanella” di Reggio Calabria, pp. 75 e ss. – Rubettino editore 2018
[2] Delfino L.M. “L’eccesso di potere nelle interdittive antimafia” in Filodiritto editore, rivista on line www filodiritto. com., gennaio 2016
[3] Delfino L.M. “Ancora qualche riflessione ermeneutica quantomeno di buon senso sull’abnorme potere discrezionale della P.A. procedente in tema di interdittive” in Filodiritto editore rivista on line www filodiritto.com., ottobre 2016
[4] Delfino L.M. Eppur si muove: prove qualificate di erosione di un monolite illiberale che “… infiniti addusse lutti …” ai principi ed ai valori dello Stato di diritto in Filodiritto editore rivista on line www filodiritto.com., aprile 2020
Ricordare non guasta!
Art. 54 Costituzione
Ci domandiamo quale ruolo e funzione, di “organo di garanzia” assuma il potere di nomina del Presidente della Repubblica, in quanto riteniamo di escluderne una funzione meramente notarile.
E’ chiaro, come vedremo anche dai lavori della Costituente[1], che la proposta del premier riflette rapporti politici e di fiducia con le persone da lui indicate, ma ciò non risolve il problema, in quanto il potere di nomina del Presidente della Repubblica dovrà, anzitutto, accertare che la designazione non si ponga in contrasto con l’
Art. 54 Cost.: «Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge»,
né con l’art. 97, commi 1 e 2, Cost.: «I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge [cfr. art. 95 c.3], in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione. Nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari [cfr. art. 28]».
L’art. 54 Cost. è fondamentale per designare i requisiti personali che devono essere garantiti per qualsiasi componente la compagine governativa, ed è proprio sulla onorabilità del designato che, anzitutto, deve esprimersi il Capo dello Stato al momento della designazione, nonché sulle capacità di adempimento alle funzioni delegate.
Il Capo dello Stato dovrà, anzitutto, accertare l’assenza di reati extrafunzionali: concorso esterno in associazioni di stampo mafioso, atti contro il buon costume, corruttela, riciclaggio, gravi reati finanziari, etc. La valutazione concerne la gravità del reato, il grado del giudizio, eventuali condanne passate o meno in giudicato. Responsabilità penali ed amministrative nell’esercizio di funzioni pubbliche.
Il giudizio del Presidente dovrà anche valutare azioni extraparlamentari del designato, attentati alla Costituzione o all’Unità della Nazione, tra cui, anche la presentazione o la pubblica adesione a proposte di leggi razziali. In tal caso, ai sensi degli artt. 91 e 87 Cost., il Presidente della Repubblica dovrà rifiutare la nomina per la pericolosità sociale del designato.
Non è la prima volta che un Presidente della Repubblica dice no.
C'è l'articolo 92 della Carta, secondo cui il capo dello Stato, nella scelta dei ministri, non è un mero esecutore delle volontà dei partiti: «Il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio e, su proposta di questo, i ministri».
Quando Di Maio evoca la Terza Repubblica forse dimentica che la Costituzione è ancora quella, per fortuna nessuno l'ha cambiata. E come una bussola va seguita.
1979. Pertini disse no a Cossiga su Darida alla Difesa.
Nel 1993 Oscar Luigi Scalfaro a "Prodi fatto" scelse Ciampi.
L'anno seguente sempre Scalfaro stoppò Cesare Previti, avvocato di Silvio Berlusconi.
Il Cav. ottenuto l’incarico di formare un governo, tentò di farlo nominare Ministro di Grazia e Giustizia, ma non ci riuscì.
Nel tempo Ciampi disse no a Maroni come ministro della Giustizia.
In anni più recenti, Giorgio Napolitano, nel 2014, sconsigliò a Matteo Renzi di mettere in lista il procuratore di Reggio Calabria Nicola Gratteri, perché la sua nomina avrebbe contraddetto la regola non scritta secondo cui un magistrato in servizio non può assumere l’incarico di ministro della Giustizia.
In questo tempo lungo, nessuno in Italia ha usato la parola golpe.
Rifletta chi la cita a sproposito.
La Festa della Repubblica
l 2 e il 3 giugno del 1946 si tenne un referendum istituzionale con il quale gli italiani vennero chiamati alle urne per decidere quale forma di stato – monarchia o repubblica – dare al paese[3]. Il referendum fu indetto al termine della seconda guerra mondiale, qualche anno dopo la caduta del fascismo, il regime dittatoriale che era stato sostenuto dalla famiglia reale italiana per più di 20 anni[3].
I sostenitori della repubblica scelsero il simbolo dell'Italia turrita, personificazione nazionale dell'Italia, da utilizzare nella campagna elettorale e sulla scheda del referendum sulla forma istituzionale dello Stato, in contrapposizione allo stemma sabaudo che rappresentava invece la monarchia[4][5]. Ciò scatenò varie polemiche, visto che l'iconografia della personificazione allegorica dell'Italia aveva, e ha tuttora, un significato universale e unificante che avrebbe dovuto essere comune a tutti gli italiani e non solo a una parte di loro: questa fu l'ultima apparizione in ambito istituzionale dell'Italia turrita[6].
Scheda del referendum istituzionale del 2 e 3 giugno 1946. Nel cerchio di sinistra è presente la raffigurazione dell'Italia turrita (in riferimento alla repubblica), mentre in quello di destra quella dello stemma sabaudo (in riferimento alla monarchia)
Questo referendum istituzionale fu la prima votazione a suffragio universale indetta in Italia[3]. Il risultato della consultazione popolare, 12 717 923 voti per la repubblica e 10 719 284 per la monarchia (con una percentuale, rispettivamente, di 54,3% e 45,7%), venne comunicato il 10 giugno 1946, quando la Corte di cassazione dichiarò, dopo 85 anni di regno, la nascita della Repubblica Italiana[3], venendo sanzionato definitivamente il 18 giugno.
Il re d'Italia Umberto II di Savoia, per evitare che gli scontri tra monarchici e repubblicani, manifestatisi già con fatti di sangue in varie città italiane, si potessero estendere in tutto il paese, il 13 giugno, decise di lasciare l'Italia e andare in esilio in Portogallo[7]. Dal 1º gennaio 1948, con l'entrata in vigore della Costituzione della Repubblica, fu proibito ai discendenti maschi di Umberto II di Savoia l'ingresso in Italia; la disposizione fu abrogata nel 2002[8].
L'11 giugno 1946, primo giorno dell'Italia repubblicana, venne dichiarato giorno festivo[9].
Il 2 giugno si celebra la nascita della nazione moderna in maniera simile al 14 luglio francese (anniversario della presa della Bastiglia) e al 4 luglio statunitense (anniversario della dichiarazione d'indipendenza dalla Gran Bretagna). Il 17 marzo si festeggia invece l'unità d'Italia e la nascita dello stato italiano in onore al 17 marzo 1861, data della proclamazione del Regno d'Italia[10]. Prima della nascita della repubblica, la giornata celebrativa nazionale del Regno d'Italia era la festa dello Statuto Albertino, che si teneva nella prima domenica di giugno[11].
Il Vittoriano, conosciuto anche come "Altare della Patria"
La prima celebrazione della Festa della Repubblica Italiana avvenne il 2 giugno 1947[12], mentre nel 1948 si ebbe la prima parata militare in via dei Fori Imperiali a Roma[13][14]; il 2 giugno fu definitivamente dichiarato festa nazionale nel 1949[15]. Nell'occasione il cerimoniale comprese la rivista militare delle forze armate in onore della repubblica da parte del Presidente della Repubblica Italiana; la manifestazione avvenne in piazza Venezia, di fronte al Vittoriano[13]. Dopo la deposizione della corona d'alloro al Milite Ignoto da parte del presidente della Repubblica Italiana Luigi Einaudi, gli stendardi delle forze armate abbandonarono la formazione, percorsero la scalinata del monumento e resero omaggio al presidente con un inchino[13].
L'allora presidente Giorgio Napolitano mentre passa in rassegna le formazioni schierate per la rivista militare sulla Lancia Flaminia presidenziale il 2 giugno 2008
Nel 1949, con l'ingresso dell'Italia nella NATO, si svolsero dieci celebrazioni in contemporanea in tutto il Paese: nell'occasione, per rimarcare il legame della neonata repubblica con il mazzinianesimo, corrente del Risorgimento che faceva capo a Giuseppe Mazzini, fervente repubblicano, fu inaugurato nell'attuale piazzale Ugo La Malfa a Roma, in memoria del patriota genovese, un monumento celebrativo davanti al quale si svolse la manifestazione principale della Festa della Repubblica[13].
Nel 1961 la celebrazione principale della Festa della Repubblica non ebbe luogo a Roma ma a Torino, prima capitale dell'Italia unita. Torino fu capitale d'Italia dal 1861 al 1865, seguita da Firenze (1865-1871) e infine da Roma, che ne è capitale dal 1871. Nel 1961, infatti, si celebrava anche il centenario dell'Unità d'Italia (1861-1961)[13]. Nel 1963 la manifestazione non venne effettuata nella giornata del 2 giugno per le condizioni di salute di papa Giovanni XXIII, ormai morente, e venne rinviata al 4 novembre, in contemporanea alla Giornata dell'Unità Nazionale e delle Forze Armate[13].
Nel 1965 alla celebrazione principale di Roma parteciparono anche gli stendardi delle unità militari soppresse che presero parte alla prima guerra mondiale; in quell'anno infatti si commemorava anche il 50º anniversario dell'entrata dell'Italia nel primo conflitto mondiale. Nello specifico, l'Italia incominciò ufficialmente le operazioni militari nella prima guerra mondiale il 24 maggio 1915, con un primo colpo di cannone sparato dal Forte Verena, sull'altopiano di Asiago, verso le fortezze austriache situate sulla Piana di Vezzena: ai primi fanti del Regio Esercito che varcarono il confine è dedicata la prima strofa de La canzone del Piave[13].
A causa della grave crisi economica che attanagliava l'Italia negli anni settanta, per contenere i costi statali e sociali, la Festa della Repubblica, con legge n. 54 del 5 marzo 1977, fu spostata alla prima domenica di giugno, con la conseguente soppressione del 2 giugno come giorno festivo a essa collegato[16]. Nel 2001, su impulso dell'allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi che fu protagonista, all'inizio del XXI secolo, di una più generale azione di valorizzazione dei simboli patri italiani, la Festa della Repubblica Italiana ha abbandonato lo status di festa mobile, riassumendo la sua collocazione tradizionale del 2 giugno, che è ritornato così a essere giorno festivo a tutti gli effetti[3][17][18].
Nel 2018 alla celebrazione principale di Roma hanno partecipato anche le bandiere e gli stendardi delle unità militari attive e soppresse che presero parte alla prima guerra mondiale; in quell'anno infatti si commemorava anche il 100º anniversario della vittoria dell'Italia sull'Austria-Ungheria nel primo conflitto mondiale, avvenuta il 4 novembre 1918.
L'allora presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano, scortato dai Corazzieri, rende omaggio al Milite Ignoto all'Altare della Patria il 2 giugno 2012
Le Frecce Tricolori durante la parata militare del 2 giugno 2006
La Festa della Repubblica Italiana in piazza del Plebiscito, a Napoli, il 2 giugno 2009.
Il cerimoniale ufficiale della celebrazione di Roma prevede l'alzabandiera solenne all'Altare della Patria e l'omaggio al Milite Ignoto con la deposizione di una corona d'alloro da parte del Presidente della Repubblica alla presenza della massime cariche dello Stato, ovvero del Presidente del Senato, del Presidente della Camera, del Presidente del Consiglio dei ministri, del Presidente della Corte costituzionale, del Ministro della difesa e del Capo di stato maggiore della difesa[13][14][19]. Dopo l'esecuzione dell'Inno di Mameli, le Frecce Tricolori attraversano i cieli di Roma[14].
In seguito il Presidente della Repubblica si reca in via di San Gregorio con la Lancia Flaminia presidenziale scortato da una pattuglia di Corazzieri in motocicletta dove, insieme con il Comandante militare della Capitale, passa in rassegna i reparti schierati[14][19]. Il Capo dello Stato si trasferisce quindi nella tribuna presidenziale che si trova in via dei Fori Imperiali, dove assiste alla sfilata insieme con le più alte cariche dello Stato[13]. I militari sfilanti rendono onore al Presidente della Repubblica, chinando le insegne mentre passano dinanzi alla tribuna presidenziale. È tradizione, per i membri del governo italiano e per i presidenti dei due rami del parlamento, avere appuntata sulla giacca, durante tutta la cerimonia, una coccarda italiana tricolore[20].
La cerimonia si conclude nel pomeriggio con l'apertura al pubblico dei giardini del palazzo del Quirinale, sede della Presidenza della Repubblica Italiana, e con esecuzioni musicali da parte dei complessi bandistici dell'Esercito Italiano, della Marina Militare Italiana, dell'Aeronautica Militare Italiana, dell'Arma dei Carabinieri, della Polizia di Stato, della Guardia di Finanza, del Corpo di Polizia Penitenziaria e del Corpo Forestale dello Stato.
Nel giorno della festa, presso il Palazzo del Quirinale, viene effettuato in forma solenne il Cambio della Guardia con il Reggimento Corazzieri e la Fanfara del IV Reggimento Carabinieri a cavallo in alta uniforme[21]. Questo rito solenne viene svolto solamente in altre due occasioni, durante le celebrazioni della Festa del Tricolore (7 gennaio) e della Giornata dell'Unità Nazionale e delle Forze Armate (4 novembre)[21].
Cerimonie ufficiali si tengono su tutto il territorio nazionale. Fra esse ci sono i tradizionali ricevimenti organizzati da ogni prefettura per le autorità locali, che sono preceduti da manifestazioni pubbliche solenni con parate militari in forma ridotta che sono passate in rassegna dal prefetto nella sua veste di più alta autorità governativa in provincia. Cerimonie analoghe sono organizzate anche dalle Regioni e dai Comuni.
In tutto il mondo le ambasciate italiane organizzano cerimonie a cui sono invitati i Capi di Stato del Paese ospitante. Da tutto il mondo arrivano al Presidente della Repubblica Italiana gli auguri degli altri Capi di Stato.
La parata militare
Alla parata militare prendono parte tutte le forze armate italiane, tutte le forze di polizia della Repubblica, il Corpo nazionale dei vigili del fuoco, la Protezione Civile e la Croce Rossa Italiana. La parata militare fu inserita per la prima volta nel protocollo delle celebrazioni ufficiali nel 1950[13].
Nel 1976 la parata militare non venne organizzata in seguito al disastroso terremoto del Friuli. Il comunicato ufficiale del ministero della difesa spiegò così la decisione: " [...] La parata militare del 2 giugno, quest'anno, non si svolgerà. Lo ha comunicato il ministro della difesa Forlani, con una nota ufficiale. La decisione è stata presa a seguito della grave sciagura del Friuli e per far sì che i militari e i mezzi di stanza al nord siano utilizzati per aiutare i terremotati anziché per sfilare a via dei Fori Imperiali [...] "[22]. L'anno successivo, nel 1977, in piena austerity, venne deciso di non riprendere la tradizionale sfilata militare per non gravare ulteriori spese sul bilancio statale[13]. Questa decisione fu ribadita anche negli anni successivi. Al posto della parata militare era organizzata una manifestazione in piazza Venezia a cui prendevano parte rappresentanze delle forze armate italiane[13].
La parata militare venne reinserita nel cerimoniale ufficiale della celebrazione principale di Roma nel 1983[13]; in quell'anno la Festa della Repubblica fu organizzata la prima domenica di giugno, che fu il 5, tra l'Aventino e Porta San Paolo per commemorare la Resistenza all'occupazione tedesca della città di Roma durante la seconda guerra mondiale[13]. L'anno successivo, nel 1984, la parata tornò in via dei Fori Imperiali, mentre nel 1985 si svolse tra via dei Cerchi e le Terme di Caracalla[13]. Nel 1989 la parata militare fu eliminata nuovamente; in sua sostituzione fu organizzata una mostra storica a Piazza di Siena a Roma[13]. Fino al 1999 la celebrazione della Festa della Repubblica si limitò esclusivamente alla cerimonia all'Altare della Patria[13].
La parata tornò definitivamente nel cerimoniale nel 2000 su iniziativa dell'allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi[13]. Nel 2004 Carlo Azeglio Ciampi volle che sfilassero nella parata anche il Corpo di Polizia municipale di Roma, in rappresentanza di tutte le Polizie locali d'Italia, e il personale della Protezione Civile.
Dalla sua istituzione sino alla sua prima temporanea abolizione, la parata militare poteva contare sulla sfilata di un numero maggiore di persone. Dopo la sua reintroduzione l'organico fu ridotto notevolmente e nel 2006 venne fortemente contenuta la presenza di mezzi terrestri e aerei per ragioni di bilancio.
Nel 2011, in occasione del 150º anniversario dell'Unità d'Italia, sfilò anche il Tricolore di Oliosi. La storica bandiera, che sfilò su un affusto di cannone, risale alla terza guerra di indipendenza italiana (1866) e venne eroicamente salvata a Oliosi, oggi frazione del comune di Castelnuovo del Garda, dalla cattura delle truppe austriache durante la battaglia di Custoza[23].
Nel 2012 la parata del 2 giugno venne dedicata ai terremotati dell'Emilia. In quell'occasione, da più parti, ne fu chiesto l'annullamento. Per rispetto alle vittime la parata si svolse quindi secondo un programma ridotto, senza cavalli (tanto che i Corazzieri sfilarono appiedati) e veicoli e senza il tradizionale sorvolo delle Frecce tricolori.[24] Queste riduzioni furono confermate nel 2013, in piena grande recessione; inoltre, l'allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sospese il ricevimento cerimoniale per motivi di austerità e di solidarietà verso i poveri e i meno abbienti.[25] Le Frecce tricolori e i Corazzieri a cavallo tornarono a partire dall'edizione 2014, mentre il ricevimento fu ripristinato dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella a partire dal 2015[26].
Alla parata militare prendono parte anche alcune delegazioni militari dell'ONU, della NATO, dell'Unione europea e rappresentanze di reparti multinazionali che presentano una componente italiana.
La Festa della Repubblica l 2 e il 3 giugno del 1946 si tenne un referendum istituzionale con il quale gli italiani vennero chiamati alle urne per decidere quale forma di stato – monarchia o repubblica – dare al paese[3]. Il referendum fu indetto al termine della seconda guerra mondiale, qualche anno dopo la caduta del fascismo, il regime dittatoriale che era stato sostenuto dalla famiglia reale italiana per più di 20 anni[3]. I sostenitori della repubblica scelsero il simbolo dell'Italia turrita, personificazione nazionale dell'Italia, da utilizzare nella campagna elettorale e sulla scheda del referendum sulla forma istituzionale dello Stato, in contrapposizione allo stemma sabaudo che rappresentava invece la monarchia[4][5]. Ciò scatenò varie polemiche, visto che l'iconografia della personificazione allegorica dell'Italia aveva, e ha tuttora, un significato universale e unificante che avrebbe dovuto essere comune a tutti gli italiani e non solo a una parte di loro: questa fu l'ultima apparizione in ambito istituzionale dell'Italia turrita[6]. Repubblica Monarchia Scheda del referendum istituzionale del 2 e 3 giugno 1946. Nel cerchio di sinistra è presente la raffigurazione dell'Italia turrita (in riferimento alla repubblica), mentre in quello di destra quella dello stemma sabaudo (in riferimento alla monarchia) Questo referendum istituzionale fu la prima votazione a suffragio universale indetta in Italia[3]. Il risultato della consultazione popolare, 12 717 923 voti per la repubblica e 10 719 284 per la monarchia (con una percentuale, rispettivamente, di 54,3% e 45,7%), venne comunicato il 10 giugno 1946, quando la Corte di cassazione dichiarò, dopo 85 anni di regno, la nascita della Repubblica Italiana[3], venendo sanzionato definitivamente il 18 giugno. Il re d'Italia Umberto II di Savoia, per evitare che gli scontri tra monarchici e repubblicani, manifestatisi già con fatti di sangue in varie città italiane, si potessero estendere in tutto il paese, il 13 giugno, decise di lasciare l'Italia e andare in esilio in Portogallo[7]. Dal 1º gennaio 1948, con l'entrata in vigore della Costituzione della Repubblica, fu proibito ai discendenti maschi di Umberto II di Savoia l'ingresso in Italia; la disposizione fu abrogata nel 2002[8]. L'11 giugno 1946, primo giorno dell'Italia repubblicana, venne dichiarato giorno festivo[9]. Il 2 giugno si celebra la nascita della nazione moderna in maniera simile al 14 luglio francese (anniversario della presa della Bastiglia) e al 4 luglio statunitense (anniversario della dichiarazione d'indipendenza dalla Gran Bretagna). Il 17 marzo si festeggia invece l'unità d'Italia e la nascita dello stato italiano in onore al 17 marzo 1861, data della proclamazione del Regno d'Italia[10]. Prima della nascita della repubblica, la giornata celebrativa nazionale del Regno d'Italia era la festa dello Statuto Albertino, che si teneva nella prima domenica di giugno[11]. Il Vittoriano, conosciuto anche come "Altare della Patria" La prima celebrazione della Festa della Repubblica Italiana avvenne il 2 giugno 1947[12], mentre nel 1948 si ebbe la prima parata militare in via dei Fori Imperiali a Roma[13][14]; il 2 giugno fu definitivamente dichiarato festa nazionale nel 1949[15]. Nell'occasione il cerimoniale comprese la rivista militare delle forze armate in onore della repubblica da parte del Presidente della Repubblica Italiana; la manifestazione avvenne in piazza Venezia, di fronte al Vittoriano[13]. Dopo la deposizione della corona d'alloro al Milite Ignoto da parte del presidente della Repubblica Italiana Luigi Einaudi, gli stendardi delle forze armate abbandonarono la formazione, percorsero la scalinata del monumento e resero omaggio al presidente con un inchino[13]. L'allora presidente Giorgio Napolitano mentre passa in rassegna le formazioni schierate per la rivista militare sulla Lancia Flaminia presidenziale il 2 giugno 2008 Nel 1949, con l'ingresso dell'Italia nella NATO, si svolsero dieci celebrazioni in contemporanea in tutto il Paese: nell'occasione, per rimarcare il legame della neonata repubblica con il mazzinianesimo, corrente del Risorgimento che faceva capo a Giuseppe Mazzini, fervente repubblicano, fu inaugurato nell'attuale piazzale Ugo La Malfa a Roma, in memoria del patriota genovese, un monumento celebrativo davanti al quale si svolse la manifestazione principale della Festa della Repubblica[13]. Nel 1961 la celebrazione principale della Festa della Repubblica non ebbe luogo a Roma ma a Torino, prima capitale dell'Italia unita. Torino fu capitale d'Italia dal 1861 al 1865, seguita da Firenze (1865-1871) e infine da Roma, che ne è capitale dal 1871. Nel 1961, infatti, si celebrava anche il centenario dell'Unità d'Italia (1861-1961)[13]. Nel 1963 la manifestazione non venne effettuata nella giornata del 2 giugno per le condizioni di salute di papa Giovanni XXIII, ormai morente, e venne rinviata al 4 novembre, in contemporanea alla Giornata dell'Unità Nazionale e delle Forze Armate[13]. Nel 1965 alla celebrazione principale di Roma parteciparono anche gli stendardi delle unità militari soppresse che presero parte alla prima guerra mondiale; in quell'anno infatti si commemorava anche il 50º anniversario dell'entrata dell'Italia nel primo conflitto mondiale. Nello specifico, l'Italia incominciò ufficialmente le operazioni militari nella prima guerra mondiale il 24 maggio 1915, con un primo colpo di cannone sparato dal Forte Verena, sull'altopiano di Asiago, verso le fortezze austriache situate sulla Piana di Vezzena: ai primi fanti del Regio Esercito che varcarono il confine è dedicata la prima strofa de La canzone del Piave[13]. A causa della grave crisi economica che attanagliava l'Italia negli anni settanta, per contenere i costi statali e sociali, la Festa della Repubblica, con legge n. 54 del 5 marzo 1977, fu spostata alla prima domenica di giugno, con la conseguente soppressione del 2 giugno come giorno festivo a essa collegato[16]. Nel 2001, su impulso dell'allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi che fu protagonista, all'inizio del XXI secolo, di una più generale azione di valorizzazione dei simboli patri italiani, la Festa della Repubblica Italiana ha abbandonato lo status di festa mobile, riassumendo la sua collocazione tradizionale del 2 giugno, che è ritornato così a essere giorno festivo a tutti gli effetti[3][17][18]. Nel 2018 alla celebrazione principale di Roma hanno partecipato anche le bandiere e gli stendardi delle unità militari attive e soppresse che presero parte alla prima guerra mondiale; in quell'anno infatti si commemorava anche il 100º anniversario della vittoria dell'Italia sull'Austria-Ungheria nel primo conflitto mondiale, avvenuta il 4 novembre 1918. L'allora presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano, scortato dai Corazzieri, rende omaggio al Milite Ignoto all'Altare della Patria il 2 giugno 2012 Le Frecce Tricolori durante la parata militare del 2 giugno 2006 La Festa della Repubblica Italiana in piazza del Plebiscito, a Napoli, il 2 giugno 2009. Il cerimoniale ufficiale della celebrazione di Roma prevede l'alzabandiera solenne all'Altare della Patria e l'omaggio al Milite Ignoto con la deposizione di una corona d'alloro da parte del Presidente della Repubblica alla presenza della massime cariche dello Stato, ovvero del Presidente del Senato, del Presidente della Camera, del Presidente del Consiglio dei ministri, del Presidente della Corte costituzionale, del Ministro della difesa e del Capo di stato maggiore della difesa[13][14][19]. Dopo l'esecuzione dell'Inno di Mameli, le Frecce Tricolori attraversano i cieli di Roma[14]. In seguito il Presidente della Repubblica si reca in via di San Gregorio con la Lancia Flaminia presidenziale scortato da una pattuglia di Corazzieri in motocicletta dove, insieme con il Comandante militare della Capitale, passa in rassegna i reparti schierati[14][19]. Il Capo dello Stato si trasferisce quindi nella tribuna presidenziale che si trova in via dei Fori Imperiali, dove assiste alla sfilata insieme con le più alte cariche dello Stato[13]. I militari sfilanti rendono onore al Presidente della Repubblica, chinando le insegne mentre passano dinanzi alla tribuna presidenziale. È tradizione, per i membri del governo italiano e per i presidenti dei due rami del parlamento, avere appuntata sulla giacca, durante tutta la cerimonia, una coccarda italiana tricolore[20]. La cerimonia si conclude nel pomeriggio con l'apertura al pubblico dei giardini del palazzo del Quirinale, sede della Presidenza della Repubblica Italiana, e con esecuzioni musicali da parte dei complessi bandistici dell'Esercito Italiano, della Marina Militare Italiana, dell'Aeronautica Militare Italiana, dell'Arma dei Carabinieri, della Polizia di Stato, della Guardia di Finanza, del Corpo di Polizia Penitenziaria e del Corpo Forestale dello Stato. Nel giorno della festa, presso il Palazzo del Quirinale, viene effettuato in forma solenne il Cambio della Guardia con il Reggimento Corazzieri e la Fanfara del IV Reggimento Carabinieri a cavallo in alta uniforme[21]. Questo rito solenne viene svolto solamente in altre due occasioni, durante le celebrazioni della Festa del Tricolore (7 gennaio) e della Giornata dell'Unità Nazionale e delle Forze Armate (4 novembre)[21]. Cerimonie ufficiali si tengono su tutto il territorio nazionale. Fra esse ci sono i tradizionali ricevimenti organizzati da ogni prefettura per le autorità locali, che sono preceduti da manifestazioni pubbliche solenni con parate militari in forma ridotta che sono passate in rassegna dal prefetto nella sua veste di più alta autorità governativa in provincia. Cerimonie analoghe sono organizzate anche dalle Regioni e dai Comuni. In tutto il mondo le ambasciate italiane organizzano cerimonie a cui sono invitati i Capi di Stato del Paese ospitante. Da tutto il mondo arrivano al Presidente della Repubblica Italiana gli auguri degli altri Capi di Stato. La parata militare Alla parata militare prendono parte tutte le forze armate italiane, tutte le forze di polizia della Repubblica, il Corpo nazionale dei vigili del fuoco, la Protezione Civile e la Croce Rossa Italiana. La parata militare fu inserita per la prima volta nel protocollo delle celebrazioni ufficiali nel 1950[13]. Nel 1976 la parata militare non venne organizzata in seguito al disastroso terremoto del Friuli. Il comunicato ufficiale del ministero della difesa spiegò così la decisione: " [...] La parata militare del 2 giugno, quest'anno, non si svolgerà. Lo ha comunicato il ministro della difesa Forlani, con una nota ufficiale. La decisione è stata presa a seguito della grave sciagura del Friuli e per far sì che i militari e i mezzi di stanza al nord siano utilizzati per aiutare i terremotati anziché per sfilare a via dei Fori Imperiali [...] "[22]. L'anno successivo, nel 1977, in piena austerity, venne deciso di non riprendere la tradizionale sfilata militare per non gravare ulteriori spese sul bilancio statale[13]. Questa decisione fu ribadita anche negli anni successivi. Al posto della parata militare era organizzata una manifestazione in piazza Venezia a cui prendevano parte rappresentanze delle forze armate italiane[13]. La parata militare venne reinserita nel cerimoniale ufficiale della celebrazione principale di Roma nel 1983[13]; in quell'anno la Festa della Repubblica fu organizzata la prima domenica di giugno, che fu il 5, tra l'Aventino e Porta San Paolo per commemorare la Resistenza all'occupazione tedesca della città di Roma durante la seconda guerra mondiale[13]. L'anno successivo, nel 1984, la parata tornò in via dei Fori Imperiali, mentre nel 1985 si svolse tra via dei Cerchi e le Terme di Caracalla[13]. Nel 1989 la parata militare fu eliminata nuovamente; in sua sostituzione fu organizzata una mostra storica a Piazza di Siena a Roma[13]. Fino al 1999 la celebrazione della Festa della Repubblica si limitò esclusivamente alla cerimonia all'Altare della Patria[13]. La parata tornò definitivamente nel cerimoniale nel 2000 su iniziativa dell'allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi[13]. Nel 2004 Carlo Azeglio Ciampi volle che sfilassero nella parata anche il Corpo di Polizia municipale di Roma, in rappresentanza di tutte le Polizie locali d'Italia, e il personale della Protezione Civile. Dalla sua istituzione sino alla sua prima temporanea abolizione, la parata militare poteva contare sulla sfilata di un numero maggiore di persone. Dopo la sua reintroduzione l'organico fu ridotto notevolmente e nel 2006 venne fortemente contenuta la presenza di mezzi terrestri e aerei per ragioni di bilancio. Nel 2011, in occasione del 150º anniversario dell'Unità d'Italia, sfilò anche il Tricolore di Oliosi. La storica bandiera, che sfilò su un affusto di cannone, risale alla terza guerra di indipendenza italiana (1866) e venne eroicamente salvata a Oliosi, oggi frazione del comune di Castelnuovo del Garda, dalla cattura delle truppe austriache durante la battaglia di Custoza[23]. Nel 2012 la parata del 2 giugno venne dedicata ai terremotati dell'Emilia. In quell'occasione, da più parti, ne fu chiesto l'annullamento. Per rispetto alle vittime la parata si svolse quindi secondo un programma ridotto, senza cavalli (tanto che i Corazzieri sfilarono appiedati) e veicoli e senza il tradizionale sorvolo delle Frecce tricolori.[24] Queste riduzioni furono confermate nel 2013, in piena grande recessione; inoltre, l'allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sospese il ricevimento cerimoniale per motivi di austerità e di solidarietà verso i poveri e i meno abbienti.[25] Le Frecce tricolori e i Corazzieri a cavallo tornarono a partire dall'edizione 2014, mentre il ricevimento fu ripristinato dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella a partire dal 2015[26]. Alla parata militare prendono parte anche alcune delegazioni militari dell'ONU, della NATO, dell'Unione europea e rappresentanze di reparti multinazionali che presentano una componente italiana.
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Gotta: cosa mangiare (e cosa no)
Possiamo definire la gotta come una forma di artrite, ovvero una condizione di infiammazione cronica che colpisce le articolazioni. Ancora oggi, questa patologia affligge milioni di persone nel mondo.
Le persone affette da gotta sperimentano improvvisi attacchi di dolore, gonfiore e infiammazione delle articolazioni. Fortunatamente, ad oggi, la gotta può essere curata e mantenuta sotto controllo grazie agli opportuni farmaci, ad un’alimentazione favorevole e ad alcuni semplici cambiamenti nello stile di vita.
Concentriamoci per un attimo sull’alimentazione, per capire cosa mangiare per la gotta.
Gotta e uricemia alta: facciamo il punto
La gotta è una malattia reumatica che colpisce le articolazioni e i tessuti, con attacchi ricorrenti di artrite, gonfiore, arrossamento e una costante sensazione di calore da infiammazione.
Questa patologia, che interessa soprattutto la popolazione di età sopra i 65 anni, è causata dall’iperuricemia, ovvero dall’eccesso di acido urico nel sangue.
L’uricemia alta può essere dovuta a fattori di predisposizione genetica, a difetti nella funzionalità renale, all’assunzione prolungata di certi farmaci, come gli antipertensivi ma anche a scorrette abitudini alimentari.
Alcuni cibi, infatti, hanno un elevato contenuto in purine, le basi azotate che, quando insorge la gotta, l’organismo sintetizza in quantità eccessive, senza poi riuscire a smaltirli con la stessa velocità o efficienza, lasciando che l’acido urico, un diretto metabolita delle purine, si depositi nelle articolazioni e nei tessuti sotto forma di molecole cristallizzate, causando infiammazione.
Ecco perché le persone affette da tale patologia devono assolutamente intervenire per modificare anche il loro stile alimentare e capire cosa mangiare per prevenire ulteriori aggravamenti e complicazioni della condizione. La dieta per la gotta, infatti, può sicuramente essere un valido alleato per alleviare i sintomi e, perché no, stare davvero meglio.
Cosa non mangiare per la gotta
Per le persone soggette ad attacchi di gotta, sono da evitare tutti quei cibi con elevato contenuto in acidi nucleici e, in particolare, in purine. Inoltre, bisognerebbe evitare anche gli alimenti con elevato contenuto di fruttosio, poiché possono innescare un attacco di gotta.
Dunque, cosa non mangiare con la gotta?
Inoltre, i carboidrati raffinati, come il pane bianco, le torte e i biscotti, andrebbero esclusi dalla dieta per la gotta. Nonostante non abbiano un contenuto elevato in purine o in fruttosio, infatti, questi cibi presentano un basso valore nutritivo e potrebbero far innalzare i livelli di acido urico.
Gotta: cosa mangiare
Cosa mangiare con la gotta? Niente paura. Vi sono molti alimenti a basso contenuto di purine che si possono consumare con assoluta serenità.
Gli alimenti vengono considerati a basso contenuto di purine quando i livelli di queste molecole non superano i 100 mg per 100 g di alimento.
Riportiamo alcuni fra i principali cibi a basso contenuto di purine, che sono considerati universalmente sicuri per le persone affette da gotta:
Cosa mangiare (con estrema moderazione) se si soffre di uricemia alta
A parte le carni d’organo, la selvaggina e certe tipologie di pesce, la maggior parte delle carni può essere consumata, anche se in quantità limitata. È consigliabile, però, limitarsi a circa 115 – 170 g di questi cibi, da assumere una o due volte alla settimana.
Questi, infatti, contengono un modesto contenuto di purine, stimato in circa 100 – 120 mg per 100 g di alimento. Mangiarne in quantità superiore a quelle indicate può, quindi, innescare un attacco di gotta. In particolare, via libera, con moderazione, a:
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